Elogio dell'arroganza
Essere se stessi, anche a costo di sembrare arroganti
Il filosofo Martin Buber sostiene che l’essere umano si costituisce nella relazione, e che il Sé non si realizza in isolamento, ma nell’incontro con l’altro.
Ma che succede se l’altro ci umilia?
Secondo le categorie di Buber, l’Io non nasce una volta per tutte: si forma e si riforma in ogni relazione. Quando incontriamo davvero un Tu, veniamo riconosciuti e confermati nella nostra dignità. Se invece l’altro ci umilia, non si dà più un rapporto Io-Tu: veniamo trattati come Esso, come oggetti, e non come persone.
Quando accade, l’umiliazione può così generare una ferita identitaria, perché siamo esseri relazionali e lo sguardo dell’altro ci tocca nel profondo. Colpisce proprio nel nostro desiderio di essere visti e accolti.
Il caso Kafka
In Lettera al padre, Franz Kafka descrive proprio questa ferita causata dalle umiliazioni del padre, che lo portarono a sentirsi una nullità. Hermann Kafka, commerciante autoritario e pragmatico, non seppe mai riconoscere i talenti del figlio. Considerava la scrittura un’attività inutile, un lusso inconcludente, inadeguato per sostenere la vita reale. Questo disprezzo pesò moltissimo sull’autostima di Franz.
Non è un caso che Franz Kafka ebbe un rapporto tormentato con la sua opera, era ipercritico con sé stesso, tanto che chiese all’amico Max Brod - suo esecutore testamentario - di bruciare i suoi manoscritti inediti dopo la sua morte. Questo avrebbe significato perdere meravigliose opere come Il processo, Il castello e America.
Fortunatamente, Brod disobbedì all’amico, ritenendo che la grandezza di Kafka andasse salvata. Grazie a questa disobbedienza oggi conosciamo gran parte della sua opera.
Ecco fin dove può spingersi una ferita identitaria: può essere tale da impedirci di riconoscerci. Al punto che uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi non si riteneva degno, non riconosceva il suo talento. Kafka non si sarebbe mai immaginato di essere considerato un grandissimo ed eccezionale scrittore.
Eppure, Franz ha sempre scritto. Per lui era vitale, come respirare, non poteva assolutamente farne a meno, anche se viveva con angoscia questa vocazione. Non solo, andò oltre: Franz Kafka seppe trasformare la tensione interiore in materia creativa, dando vita a opere originali e irripetibili, destinate a diventare capolavori della letteratura mondiale.
Processo di individuazione
Per Jung, l’individuazione è il processo di realizzazione del Sé, cioè l’integrazione di tutte le parti della psiche, conscio e inconscio, fino a diventare pienamente se stessi. Questo processo si sviluppa in fasi simboliche: la Nigredo, caduta e confronto con l’oscurità interiore; l’Albedo, chiarificazione e purificazione; la Citrinitas, maturazione; e la Rubedo, rinascita e integrazione finale del Sé. Ogni fase rappresenta un passaggio necessario verso la trasformazione e la crescita interiore.
I momenti di caduta, anche se dolorosi, possono trasformarsi in fasi di Nigredo: terreni fertili per la nostra crescita. È lì che l’ego si confronta con l’ombra, le paure, le ferite più profonde: ciò che è stato rifiutato, negato o umiliato emerge con forza.
Buber ci ricorda che l’umiliazione non determina in modo definitivo il nostro Sé. Anche quando veniamo ridotti a Esso, il nostro Sé non si annulla: può risorgere attraverso l’incontro autentico. Questo incontro può avvenire con un altro, che ci riconosce come persone, ma prima di tutto con noi stessi, quando impariamo a guardarci con dignità e accoglienza.
La sana arroganza
Con sana arroganza non intendo presunzione, ma fiducia in sé stessi: la capacità di difendere la propria dignità e il proprio talento, anche quando gli altri ci vogliono piccoli.
Chi umilia - come il padre di Kafka - non sopporta che l’altro continui a esistere fuori dal suo controllo. Infatti, più Franz trovava un proprio spazio di realizzazione - la scrittura o i successi intellettuali in generale -, più il padre lo accusava di sfidarlo, di essere arrogante. Ma era il contrario: era Hermann Kafka a imporre la sua arroganza, riducendo il figlio a oggetto e tentando di cancellarne l’identità.
Ecco allora perché parlo di sana arroganza: è una rivendicazione. Se veniamo accusati di essere arroganti semplicemente perché non ci pieghiamo, allora quella arroganza è in realtà resistenza, dignità, autoaffermazione. È l’atto di rovesciare l’insulto e trasformarlo in una forza terapeutica, e dire: “sì, sono arrogante nel continuare a essere me stesso, anche quando tu disprezzi ciò che sono”.
In questo senso la sana arroganza diventa un passaggio indispensabile per l’individuazione junghiana: è il momento in cui si smette di dipendere dall’approvazione altrui e si accetta di portare avanti il proprio cammino, anche se agli occhi di chi ci vuole sottomessi appare sfida, presunzione, arroganza.
È ciò che ci permette di attraversare la Nigredo senza spegnerci, di portare luce dove gli altri vorrebbero gettare fango.
Essere fedeli a se stessi
La caduta, la ferita, l’umiliazione non segnano la fine della nostra storia. Sono la terra oscura in cui il nostro Sé mette radici, germoglia e prepara la rinascita. La luce del Tu - che venga dall’incontro autentico con un altro o dalla parte più profonda di noi stessi - ci indica la strada. Ed è proprio seguendo questa strada, soprattutto quando qualcuno ci accusa di arroganza, che scegliamo di restare fedeli a noi stessi.





